martedì 3 dicembre 2013

Ahmid il rugbista


Un'altra storia.
Dal Ghana a Messina, passando per Lampedusa

I giornali siciliani ed alcuni nazionali hanno recentemente riportato una bella notizia che voglio condividere con voi. Ahamid Salayaman, un giovane Ghanese di 26 anni ce l'ha fatta.
Ha coronato il sogno della sua vita sfidando le terribili marce del deserto nordafricano, la permanenza in Libia come straniero disponibile a qualsiasi lavoro pur di sopravvivere, la traverata sul barcone e l'approdo a Lampedusa.

Dopo “Il Viaggio” della sua vita, finalmente la ricerca ha un termine e Ahmid può sostare fiero e contento sul suolo siciliano. Adesso gioca a rugby a Messina, nella squadra dell'Amadori che, ha ottenuto il suo affidamento.
Questa è la vera notizia. Una notizia strepitosa, che ribalta le cronache stanche del calciosport nazionale superpagato e blasonato e che si impone per il suo valore etico.
Il presidente dell'Amadori, Lello Arena, è orgoglioso per aver ottenuto questa “adozione”.
Salayaman è come un figlio che tutto il gruppo ha accolto come un fratello. E' questo il punto che viene ribadito da tutti: dai giocatori allo staff sportivo al completo.
Bisogna proprio sottolinearlo: forse è proprio questo il vero “gioco di squadra”.
Il resto viene dopo.
E se volete farvi un'idea più precisa andate a curiosare qui sotto.

L’Amatori Rugby Messina presenta Salayaman, il rugbista ghanese

Salayaman è ghanese. Un lungo viaggio per continuare a seguire il suo sogno: giocare a rugby.

Da: blogtaormina.it

di Cetty Lo Presti, 9 nov 2013

Amatori Rugby di Messina ha presentato Salayaman, un giovane migrante Ghanese di ventisei anni, giunto con un barcone prima a Lampedusa e poi a Messina. E’ ospite al Pala Niebolo di Conca D’oro, la struttura sportiva trasformata in centro di prima accoglienza per immigrati, e si allena con la squadra messinese da una settimana.
Salayaman si racconta. E’ andato via dal suo paese perché non gli piaceva il regime politico, ed è riuscito a superare la grande paura del viaggio da affrontare, solo perché gli hanno promesso che qui in Italia avrebbe potuto continuare a praticare il suo sport preferito: Il rugby.
Molti non si sono imbarcati per la paura, io all’inizio non volevo imbarcarmi, ma alla fine la voglia di venire qua era più grande”.
Non riesce a trattenere l’emozione quando gli si chiede di parlare del viaggio, e preferisce non rievocare alla memoria eventi tragici che ha vissuto, come la morte di alcuni migranti imbarcati con lui già al quarto giorno di traversata. “Non è facile” dice. Ed il suo volto è un continuo illuminarsi e incupirsi a seconda che gli si chieda del Rugby, o del viaggio.
Il rugby la sua grande passione. E’ stato anche un modo per integrarsi con gli altri ragazzi della squadra e non solo. Salayaman racconta di essersi integrato bene nella nostra città. Ha degli amici anche fuori l’ambiente sportivo, quelli che si sono imbarcati con lui, tra cui anche Nigeriani e Siriani.
Quando gli chiedo come è stato accolto a Messina, si entusiasma immediatamente “Bene, la gente di Messina è straordinaria, sono tutti buoni. Il Pala Nebiolo è semplice ma mi trovo tanto bene”. Ma ecco che torna immediatamente ad avvilirsi quando gli domando di parlarmi della sua famiglia. Si ammutolisce, gli occhi gli diventano lucidi e il volto si contrae. Così prosegue per lui un amico che conosce la sua storia, e con una mano sulla sua spalla mi racconta che il giorno in cui Salayaman è arrivato a Messina ha ricevuto una telefonata che lo avvisava della morte della madre, un problema polmonare.
Dopo qualche minuto Salayaman torna a raccontarsi: “ Qui con me c’è anche mio fratello. E’ stato lui a trovare in Libia un contatto che ci ha permesso di fare il viaggio. Ho dovuto lavorare come sarto in Libia per raccogliere i soldi che servivano per il viaggio e siamo partiti. Ho sentito i miei familiari telefonicamente, qualche giorno fa, adesso sono tutti contenti, dopo tanto piangere adesso tanta gioia”. Allora approfitto del momento di allegria per chiedergli se c’è qualcosa che gli piace della nostra cucina, e a sorpresa mi dice che gli piacciono i maccheroni, e mi racconta che quando è arrivato a Messina ha organizzato, con alcuni amici, una buonissima grigliata di carne.
E con l’ultima domanda Salayaman rafforza in me quella convinzione di come esistano cose che vanno al di là del colore della pelle, della nazionalità, dell’orientamento politico o della religione. Alla domanda: “Salayaman qual è il tuo sogno?” Mi risponde: “Voglio fare qualcosa di straordinario!






giovedì 7 novembre 2013

MULTITASKING


Lavorare, giocare e stringere rapporti... con un occhio allo smartphone.

 

da. "Diventare _ grandi.jpg"


Nel suo nuovo libro intitolato “Focus” (ed. Rizzoli) Daniel Goleman tratta uno dei processi psicologici più complessi da definire oggi: l'attenzione.
I giorni nostri, infatti, sono caratterizzati dal “fare veloce”. A volte compulsivo e, sempre più spesso, dal fare più cose contemporaneamente. E' la società del “multitasking” che fa presa nelle nuove generazioni, indossata come una divisa che, una volta infilata, è difficile rinunciarvi.
Quale relazione corre tra questo strafare e l'attenzione necessaria perchè si realizzi? Come funziona l'attenzione? Ce n'è una sola o si declina in tipologie diverse? E' una risorsa o un un pesante fardello da sopportare?

L'autore, professore ad Harvard e collaboratore scientifico del «New York Times», è conosciuto dal grande pubblico internazionale per il suo famoso libro “L'intelligenza emotiva” che ebbe un grande successo editoriale negli anni '90. In questo nuovo lavoro scompone ed analizza l'attenzione e ne mette in evidenza i diversi livelli di funzionamento. Lo fa con grande maestrìa e con la chiarezza tipica dell'insegnante americano, che ne permette una divulgazione su larga scala, anche per un pubblico non specialistico.
E' evidente a tutti che, dell'attenzione, non possiamo proprio farne a meno. E' una risorsa cognitiva che entra in gioco in numerose operazioni mentali: per apprendere concetti nuovi, per memorizzare e, infine, per decodificare lo stato emotivo del nostro interlocutore.
Goleman definisce questa facoltà il modo col quale orientiamo la nostra consapevolezza su ciò che ci circonda. E mette in evidenza tre tipologie di attenzione, sulle quali cercherò di soffermarmi proponendo alcune riflessioni personali.




Il primo modello di attenzione, è quello che ci permette di fare una selezione accurata tra gli innumerevoli stimoli che ci bombardano, per sceglierne alcuni e scartare tutti gli altri.
Per comprendere come funziona è utile ricorrere all'immagine di un “filtro” che trattiene nelle sue maglie solo alcune cose lasciando scorrer via il resto. Viene chiamata “capacità di concentrazione” perchè, come una lente di ingrandimento, mette a fuoco l'elemento centrato, sfumando e deformando i bordi che divengono illeggibili.
E' il requisito di base indispensabile per essere efficaci nelle azioni quotidiane e nella nostra professione, in quanto presente in qualsiasi processo di apprendimento. Ma c'è un pedaggio salato da pagare a questo processo mentale: essere concentrati richiede un grande sforzo attivo, con un grande dispendio di energia. Infatti quando uno stimolo nuovo viene rilevato dall'apparato sensoriale, questo dato si trasforma in un fattore di distrazione che ci costringe a scegliere se esaminarlo, oppure tenerlo ai margini del processamento.
Il secondo tipo di attenzione che Goleman individua la chiama “consapevolezza aperta”.
Ed è quell'esperienza che tutti noi possiamo fare quando lasciamo campo libero ai nostri sensi immergendoci in modo pieno nel “qui ed ora” per godere di ciò che avviene attorno a noi. In genere sperimentiamo questo tipo di attenzione quando spalanchiamo i nostri sensi nel contatto diretto con la natura che ci circonda. Come, per esempio, quando ci immergiamo nel rumore della risacca delle onde su una spiaggia; o nella visione del panorama che si gode dalla cima di una montagna; o quando ci lasciamo penetrare dalla vibrazione sonora di uno strumento musicale durante un concerto... e via dicendo.

 
da: "images.jpg"



L'ultima modalità di attenzione si concretizza quando lasciamo libera la nostra mente di “vagare dentro i nostri pensieri” e le nostre fantasie. Capita a volte di avere la sensazione di perderci dentro i meandri del pensiero; ma capita anche, in questo stato particolare della mente, di far convivere in modo nuovo degli elementi che fino a poco prima erano inconciliabili tra loro... è in questo modo che diventiamo creativi!

Si potrebbe obiettare a Goleman che, di tempo libero per poter lasciare aperti i nostri sensi sul creato e goderne beatamente ne abbiamo veramente poco. In tempo di crisi economica e sociale siamo sempre più obbligati a fare salti mortali per poter mantenere un lavoro ed una vita dignitosa. L'orario d'ufficio dalle 9 alle 17 e la settimana corta, sono reperti del secolo passato. Quando poi ne abbiamo troppo di tempo libero, è perchè siamo disoccupati; e quindi imbottiti di preoccupazioni, presi da pensieri deprimenti per lo stato di penuria e per le difficoltà nelle quali ci dibattiamo con foga per uscirne.


da: "Shutterstock.jpg"

Che fare? Goleman ci ricorda che in realtà noi possiamo ritrovare nelle pieghe della nostra vita così affacendata alcuni “tempi morti” ed è lì che possiamo lasciar correre in libertà il nostro pensiero. Per esempio quando ritorniamo in metrò verso casa, o durante la doccia, oppure quando portiamo i bambini nel parco giochi; quando ci prepariamo un panino imbottito o rassettiamo la casa con gesti automatici che non richiedono più alcuna programmazione, né sforzo di concentrazione. E’ vero che oggi abbiamo una agenda occupata da mattina a sera, ma quello che dovremo recuperare non è quel tempo libero che non c'è più, quanto “i momenti tra i momenti”. Infatti è in questo luogo che nascono le idee.

La seconda domanda da porre a Goleman riguarda il concetto di attenzione come attività selettiva, che dovrebbe occupare interamente la nostra operatività assumendo un compito alla volta. Come la mettiamo con la necessità sociale che ci impone spesso di lavorare su più compiti contemporaneamente? La modalità di operare su più livelli, cosidetta “multitasking”, può funzionare come filtro selettivo?
Secondo Goleman no. Infatti non è vero che la nostra mente è in grado di essere attenta su più cose contemporaneamente, piuttosto siamo costretti a passare molto velocemente da una cosa all’altra. Come fa la CPU del computer quando passa dal compito A al compito B, e poi al compito C secondo un algoritmo ripetitivo che non sgarra mai di una virgola!
Va da sé che noi esseri umani siamo macchine ben più complesse e flessibili di un robot/computer e che per certe funzioni cognitive essere multitasking diventa un vero handicap. Se per esempio non riusciamo più a leggere una pagina o a scrivere un testo perché siamo continuamente interrotti da altri stimoli, il processo attentivo ne risente e, alla lunga, la persona manifesta difficoltà di letto-scrittura. Cosa che si sta verificando in modo sistematico nelle nuove generazioni di studenti sia nella scuola primaria che secondaria e che merita di essere esaminato con molta cura.

 
da: "topic",  modificata



Ma il fatto più sconvolgente è quando osserviamo lo stesso fenomeno agire nei contatti sociali. Qui l'interazione tra due persone viene continuamente interrotta da una moltitudine di segnali contestuali distraenti: sms, squilli del cellulare, email. In questo caso il danno è ancora maggiore poiché si perde tutta quella parte della comunicazione non verbale, dalla mimica del volto ai gesti e alla postura, che integrano ciò che ci viene comunicato con le parole.
Goleman ci ricorda che il nostro è un cervello sociale, capace di interpretare i segnali non verbali; che questo cervello si sviluppa a partire dalla prima infanzia fino a circa 25 anni. Più questo cervello viene usato nella sua completezza, più saremo capaci di collegarci con chi ci sta di fronte, e stabilire un rapporto profondo con lui. Questa è la buona notizia.

La cattiva è la seguente. Se il flusso attentivo è continuamente interrotto da stimoli estranei, il nostro cervello disimpara a decodificare i segnali non verbali, come in una specie di analfabetismo di ritorno, mettendo a rischio il bene più importante che l'uomo possiede: la capacità di stabilire dei contatti coi suoi simili dotati sia di razionalità che di emotività e di consolidarli per farne dei legami affettivi.



 

giovedì 31 ottobre 2013

COSA RIMANE DI "SACRO"?


Pumpkin carving.jpg


Domani è la festa di “OGNISSANTI”, cioè di tutti ma proprio tutti i santi. 
E' una bella festa perchè attraversa culture, tradizioni e religioni diverse per dare voce a quel bisogno fondamentale che tutti gli esseri umani hanno di aggiungere un capitolo, anche dopo la nostra scomparsa, alla nostra storia personale. Una chance in più per continuare a vivere, in una dimensione diversa, accanto alle persone a noi care.
E allora si mescolano ingredienti del tutto diversi tra loro: l'invocazione degli spiriti degli antenati come protettori dell'oggi; la convivialità con loro attraverso le offerte di cibo; la paura scaramantica che affligge la notte precedente alla festa vera e propria come in Halloween e, per finire, la celebrazione delle virtù speciali di coloro che hanno ottenuto nella loro vita un rapporto “diretto” con Dio.

Mi chiedo, chi sono i “santi” oggi?
Sembra facile rispondere. Santo è un attributo proprio di Dio: sacro ed inviolabile per eccellenza. Un uomo lo diventa, quando viene dichiarato (sancìto) tale da una autorità religiosa per essere venerato e proposto come modello di vita. Insomma, una questione che riguarda la Chiesa e le altre organizzazioni religiose, non certo noi laici.
Ma c'è una parola che risuona forte perchè coinvolge tutti gli uomini, di qualsiasi genere, cultura, lingua e credo religioso.
E' il termine sacro”. Che vuol dire inviolabile. Cosa c'è di più sacro della vita stessa di ogni persona che vive su questa terra? Oggi, per stima approssimativa, siamo 7 miliardi e 200 milioni circa di abitanti che vivono sul questo pianeta. Quest'anno sono nati 115 milioni di bambini. Oggi ne sono nati 300.000 circa e sono morte 124.000 persone.
Siamo alla ricerca di un legame solido con le persone che amiamo e cerchiamo di mantenerlo tale nel corso della nostra esistenza. Condividiamo lo spazio e il tempo che ci è dato di vivere ragionando quasi sempre in termini minimali. E' con i nostri vicini di casa e con pochi altri, magari lontani mille miglia ma in contatto quasi contemporaneo che stabiliamo amicizia e solidarietà. Il resto ci è sconosciuto.
Le cifre, nella loro fredda razionalità, ci buttano in faccia una verità sconvolgente: nei due piatti della bilancia ci sono vite sconsacrate da uno sfruttamento disumano, ed altre in egual misura che si abbruttiscono e si autodistruggono nell'opulenza.

Una domanda mi tormenta da molto tempo: cosa rimane della sacralità di Dio in queste persone? Dove è finita una parte della sua inviolabilità, della sua misericordia e benvolenza?

24.284 le persone morte di fame oggi.
896.500.000 sono le persone denutrite nel mondo.
1.582.000.000 sono le persone in sovrappeso nel mondo.

763.400.000 le persone senza accesso ad acqua potabile.
1.498.755 morti per malattie associate all'acqua quest'anno.

6.300.000 bambini morti al di sotto del quinto anno di età quest'anno.

12.090.000.000 sigarette fumate oggi.
4.160.321 morti per fumo quest'anno.
2.081.473 morti per alcool quest'anno.

$333.000.000.000 soldi spesi in droga quest'anno.


Sono graditi commenti, ma va bene anche un rispettoso silenzio.




martedì 22 ottobre 2013


Diario di una visita di “cortesia”



A due passi dal Museo del Giocattolo, sconosciuto alla maggior parte dei milanesi, c'è la “Residenza per anziani Santa Giulia” di via Pitteri. Questa la conoscono in tanti, ed è sempre aperta al pubblico.
Di fronte al suo ingresso un vivace via vai di gente entra in Esselunga per fare la spesa nelle ore pomeridiane di un normale e tiepido venerdì autunnale. Varcata la porta, al banco informazione c'è una ragazza indaffarata al telefono, in una serrata conversazione, che vorrebbe chiudere al più presto. “Come il suo turno di lavoro” -mi viene da pensare- per uscire fuori e riprendere la sua giornata.

Io e mia moglie conosciamo il percorso. L'ascensore plana leggero e silenzioso al secondo piano. Nell'atrio, gli sguardi acquosi dei degenti incrociano le nostre occhiate furtive mentre ci dirigiamo verso la stanza di Adele.
Lei è una anziana cugina di mia moglie. E' grave, sta lentamente morendo e siamo venuti per salutarla. Non è una visita di “cortesia”.
E' adagiata di sbieco sul cuscino, con la testa riversa d'un lato, la bocca spalancata a prendere aria, intanto che il petto si solleva come un mantice rumoroso. E mi sembra che possa cedere da un momento all'altro, tanta è la fatica.

Negli ultimi quindici giorni è ancora più dimagrita. Consumata da una forma perniciosa di leucemia e di demenza senile, ha quasi smesso del tutto di nutririsi. Così si sta ritirando dal mondo. Da stamattina è piombata in un coma torpido e forse non si risveglierà più. 
Saluto suo marito Vanni e mi avvicino alle sbarre del letto. Seguo il ritmo del suo respiro ed ora che si fa più lieve e meno affannoso mi viene spontaneo accarezzare la sua mano destra che è libera dagli impicci della flebo. E' calda e liscia anche se mostra la macchia bluastra di un piccolo ematoma. 
Per qualche attimo sento il mio polso battere col suo. Così lieve, così tenue e sottile come il filo della sua vita che ci lega in questo strano incontro dove le parole sono inutili e banali.
Il viso è deformato, ha perso peso e tono, e si è allungato. La fronte è ampia ed i capelli candidi sono lunghi e mossi come ha sempre avuto da signora. Una mano benevola li ha pettinati all'indietro, trattandoli con cura. E, si vede, il viso di Adele conserva le tracce di quella donna attraente, distinta e gentile che è stata.
Le palpebre sono chiuse. “Peccato -dico a me stesso- non poter rivedere i suoi occhi limpidi venati di tratti azzurri!” Ogni tanto gira leggermente il collo ed avvicina le labbra come se volesse dire qualcosa, mentre la mano di mia moglie inumidisce la sua bocca con movimenti lenti.
Ti viene di parlarle dolcemente a questa vecchietta di 82 anni. Viene voglia di cullarla, tanto è rattrappita e ridotta come una bambina mentre sta nel grande letto d'ospedale.

Ma cosa puoi dire ad un'anima che quasi non ha più un corpo dove abitare?
Vanni, anche lui acciaccato dall'età e dalla malattia, si alza dalla poltroncina per avvicinarsi al letto. Le sue parole sono quelle di un marito sfinito e sconfortato. Il declino è stato rapido, meno di anno prima Adele era al suo braccio, coi suoi occhi sorridenti.
Abbattuto, ci dice:
Dopo la trasfusione di ieri, si è come assopita. Mi hanno detto che è in coma, e non so, se ritornerà presente. Ecco vedi -e intanto tremante prende la sua coscia dentro la mano- non ha più muscoli. Non c'è più niente.”
Forse Adele ci riconosce, ma non percorrendo le intricate vie delle parole, chè queste sono ormai consumate e logore come un vestito dismesso e dimenticato appeso chissà dove. Ci riconosce, punto. Lo so che è un atto di fede, per questo ci credo! Sono sicuro, Adele ci riconosce. E' toccata dal timbro della nostra voce, dal contatto asciutto e dal tepore delle nostre dita che incrociano le sue. Come a trasmettere un messaggio in codice.

Il vecchio marito, che è un tipo burbero dal cuore generoso, la richiama con una voce rotta dallo smarrimento.
Adele... Adele, mi senti? Sono io, sono Vanni...”
E lo ripete più volte, con foga.
Adesso sta chino col viso accostato al suo, accarezzandola.
Guardami. Quante cose belle, quanti viaggi abbiamo fatto insieme... E lo sai che ti voglio bene!”.
Poi c'è pianto e consolazione, anche se momentanea, nel nostro abbraccio.

Sostiamo in un silenzio calmo. Il vuoto che potrebbe pervadermi come un'onda travolgente, non mi allarma. 
I pensieri si arrestano. Sono fermi, rispettosi, nell'autorimessa della mente in attesa che qualcosa avvenga. Che venga svelato il mistero della vita. Come un soffio, possa finalmente andarsene via.
Uscire dalla Residenza per Anziani di via Pitteri in completa libertà a visitare il Museo dei Giocattoli, aperto apposta per lei.

Buon viaggio Adele!




sabato 12 ottobre 2013

ATTRAVERSARE IL MEDITERRANEO


MOHSEN LIHIDHEB, IL POSTINO DEL MARE

Il postino di Zarsis, un paese nel sud della Tunisia, dopo 20 anni e più di lavoro va alla scoperta della memoria del mare e diventa “postino del Mediterraneo”.

Ogni giorno, da più di 11 anni Mohsen si alza all'alba, sale sulla sua vecchia auto e percorre i 40 km necessari per raggiungere il mare. Parcheggia e cammina per 6 km: tre in una direzione e poi altri 3 nell'altra.
Al suo rientro ha raccolto nel doppio sacco che si porta sulle spalle tutto ciò che il mare abbandona sulle rive. Montagne di bottiglie di plastica, pinne, palloni consumati dalla salsedine, ma anche tavole da surf, cordame, lampade di tutti i tipi, caschi, spugne, assi di legno di insegne o sfasciami di vecchie imbarcazioni. Mohsen ne fatto un museo, che ha chiamato: “Museo della memoria del mare”. Questo museo in principio ha occupato il cortile della sua abitazione e le vicinanze, poi si è via via esteso lungo 150 km di spiagge a richiamare il paradosso dell’uomo di oggi. Un'opera d'arte costruita coi rifiuti.



Mohsen è nato, è cresciuto ed ha lavorato come postino a Zarsis. La sua vita l'ha trascorsa sempre in quel villaggio, tra il mare e la natura del deserto fino a 40 anni.
Da quel momento ha deciso di cambiare vita, con un proposito: tornare al mare, smettere di fumare, bere o fare le solite cose. Così torna veramente al mare, ma senza idee o piani per la testa . Poco alla volta, mentre cammina vagabondando sulle spiagge inizia a raccogliere tutto ciò che arriva dal mare portato dalle maree notturne.
E mentre raccogliere gli oggetti ributtati dal mare sulla terraferma, comprende che questo gesto rappresenta per lui una di stretta di mano con l'ignoto, con l'altro che non conosce.
Le cose che recupera le considera un regalo, che misteriosamente Dio gli fa trovare davanti ai suoi passi. Sono proprio queste cose a compiere il miracolo: da quel momento sente che hanno frantumato le barriere artificiali dei confini di stato, di religione, di lingua o cultura. E dal quel momento la sua vita si apre.

Se visitate il suo villaggio vi mostra le sue collezioni di bottiglie. Ci sono quelle enormi, che usano i clandestini quando si imbarcano sui gommoni verso la Sicilia. Non solo bottiglie, Mohsen trova molte cose appartenenti a questi uomini e donne annegate. Ha raccolto tutto ciò che appartiene a loro, ha provato ad espriemere così il massimo rispetto per queste vittime del nuovo ordine mondiale.
Ne ha fatto una installazione speciale, posta al centro del cortile di casa, dedicata a Mamadou. Dentro al muro delle bottiglie di plastica colorate, c'è una montagna di scarpe. Sono le scape dei naufraghi, annegati nel Mare Nostrum. Il Museo di Mohsen è un sacrario. Custodisce con cura, dopo averli raccolti e lavati, centinaia di pantaloni, magliette, giacconi e camicie... che il mare ha provveduto a restituire alle rive africane pietosamente svestendo i corpi senza vita dei migranti.
Mohsen ha ritrovato non solo degli indumenti, ma anche dei cadaveri. La prima volta nell’agosto del 2002. Gabriele Del Grande, un reporter sociale che ha scritto un bel libro sulle rotte di migrazione africane verso l'Europa “Mamadou va a morire” (ed. Infinito) ha raccolto la testimonianza di Mohsen. Eccola:
«Da qualche giorno si diceva in giro del ritrovamento di parecchi cadaveri sulle spiagge di Zarzis. La gente mi chiedeva se avessi trovato la mia parte di naufraghi, scherzando. Ma io non scherzavo affatto. Ogni volta che entravo in acqua sentivo l’angoscia salire allo stomaco. Avanzavo con cautela, ero scalzo, avevo paura di toccare uno dei cadaveri sottacqua. Il mare mi aveva consegnato prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di Sicilia. Poi i messaggi in bottiglia che parlavano della crisi dell’uomo moderno e finalmente le onde mi portavano la prima vittima in carne e ossa della corsa verso l’Occidente. L’avevo visto da lontano. All’inizio sembrava una tartaruga rivolta sul guscio. Quando mi sono accorto che era un essere umano mi sono sentito mancare. Il battito del cuore mi assordava. Era là bocconi, coperto dalle alghe fino al ginocchio e sopra la testa. Taglia media, quel corpo muscoloso in vita era stato consumato dal sole e dalle onde, la pelle beige. Con le lacrime agli occhi ho recitato il Corano e ho pregato Mosé, Cristo e tutti gli dei perché dessero la pace all’anima di Mamadou. Poi ho gridato con tutte le corde della rabbia la mia collera. Non ho voluto fare foto al mio amico, perché il suo corpo, il suo spirito e la sua bellezza appartengono soltanto a dio». Mohsen chiama la polizia, che raccogliere il cadavere per la sepoltura. La sera a casa ordina alla moglie una buona cena per tutta la famiglia. «A casa ne ho parlato solo qualche giorno dopo, ma quella sera volevo festeggiare, perché Mamadou non dormiva più al freddo».

Ma c'è un altro argomento che sta molto a cuore a Mohsen: quello dei messaggi in bottiglia. Ne ha raccolte 54 di bottiglie con messaggi. Ce ne sono di vari tipi. Alcune chiedono aiuto, quindi lanciano un SOS con scritto: “La nostra nave sta affondando, abbiamo problemi, aiutateci!”
Ci sono altre bottiglie in cui si chiede aiuto a Dio, anche per avere una buona pesca. Alcuni mandano messaggi d'amore.

Mohsen raccoglie il messaggio di una ragazza italiana, che dichiara la sua profonda delusione per la vita e il proposito di volersi uccidere. E con grande semplicità, le scrive una lettera per rincuorarla e invitarla a venire da lui ad aiutarlo a ripulire la spiaggia. E il miracolo si compie: ancora oggi mantengono un buon rapporto.

Così Mohsen decide di di non limitarsi a ricevere i messaggi, ma anche ad inviarli. Ad oggi sono più di 80 le bottoglie che ha messo in acqua per chiedere rispetto per la natura e per gli uomini. Ha ricevuto molte risposte ed ha stabilito anche tanti contatti, a volte tramutati in amicizia.

Tutte le “cose” che questo uomo semplice ha trovato, sono un collegamento, una stretta di mano che ognuno di noi può fare con l'altro. Il messagio che la sua scelta di vita ci manda è netto: siamo tutti fratelli perchè vicini l'uno con l'altro. E tutti siamo chiamati a rispondere della vita e della sorte del nostro vicino. Perchè in questo mare, che sta in mezzo alle terre, non si possono alzare muri o barriere ed ignorare quello che accade sulla sponda opposta alla tua.

Il postino di Zarsis ha trasformato l'azione delle correnti marine nella “memoria” del mare e degli uomini. E allora ci invita, con il suo inguaribile ottimismo, a non perdere l'opportunità che la vita offre ad ogni persona: incontrare l'altro.


il Museo di Mohsen

















venerdì 4 ottobre 2013

Le STORIE sono PERSONE

Le parole ritrovate.

Questa poesia l'ho trovata a luglio nel vialetto d'entrata della Biblioteca, mentre camminavo spedito verso la sala di lettura dei quotidiani.
Un biglietto anonimo che mi ha incuriosito. Lei, la poesia, era ripiegata su se stessa in una pagina di quadernone e giaceva a terra nell'indifferenza dei passanti.
Strappata alla bell'e meglio, rivoltata in quattro e sfuggita dalla tasca dei jeans o dallo zainetto di una giovane ragazza nel quotidiano transito della sua giornata.
La grafìa non lascia dubbi. Una mano femminile l'aveva scovata; aveva poi trascritto i versi con cura per averla con sè.

E' una lunga poesia che Sherwood Anderson (Il trionfo dell'uovo) ha scritto nel 1921, in un momento di blocco creativo.
Le storie che ha in mente non riescono ad entrare nella sua immaginazione, che è spenta ed inospitale. Rimangono sulla soglia di casa, al freddo, sedute sui gradini in una attesa senza fine. E sono destinate a morire.

"Le Storie son persone
sedute sui gradini della
porta d'ingresso della mia
immaginazione. 
...
Fa troppo freddo
per loro là fuori. La strada
di fronte alla porta della mia
immaginazione è piena di storie.
Sussurrano e gridano, muoiono
di freddo e di fame." ...
...

L'ho letta e riletta più volte. Le "storie" per poter nascere, crescere e toccarci nell'anima, hanno bisogno di trovare una dimora, una sensibilità, calda ed accogliente dove poter vivere con dignità. E' proprio così.

Poi, mi sono chiesto, e le "persone" che sono presenti in carne ed ossa davanti ai miei occhi ogni giorno, con il loro carico di fatiche, sogni e delusioni, dolori e speranze, come le accolgo?

Il poeta, con grande onestà, dichiara la sua impotenza e getta la spugna:

"Sono incapace - le mie mani
tremano.
Dovrei essere seduto al tavolo come
un sarto.

Le storie dovrebbero essere
vestite.
Stanno gelando sui gradini
della porta della mia immaginazione.

Sono un incapace - le mie
mani tremano. "


E' una poesia che mi ha amareggiato e lasciato inquieto. Forse per questo motivo l'ho lasciata per mesi sulla mia scrivania, aperta, su una pila di libri, senza sapere cosa fare.
Oggi l'ho ripresa in mano, l'ho riletta parola per parola e finalmente ho capito.

Sì, è vero, anch'io tremo e mi sento incapace. Ma questo è il primo passo, indispensabile, per andare oltre, per riconoscere in ogni persona la sua inconfondibile, unica, e preziosa "storia".