giovedì 31 ottobre 2013

COSA RIMANE DI "SACRO"?


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Domani è la festa di “OGNISSANTI”, cioè di tutti ma proprio tutti i santi. 
E' una bella festa perchè attraversa culture, tradizioni e religioni diverse per dare voce a quel bisogno fondamentale che tutti gli esseri umani hanno di aggiungere un capitolo, anche dopo la nostra scomparsa, alla nostra storia personale. Una chance in più per continuare a vivere, in una dimensione diversa, accanto alle persone a noi care.
E allora si mescolano ingredienti del tutto diversi tra loro: l'invocazione degli spiriti degli antenati come protettori dell'oggi; la convivialità con loro attraverso le offerte di cibo; la paura scaramantica che affligge la notte precedente alla festa vera e propria come in Halloween e, per finire, la celebrazione delle virtù speciali di coloro che hanno ottenuto nella loro vita un rapporto “diretto” con Dio.

Mi chiedo, chi sono i “santi” oggi?
Sembra facile rispondere. Santo è un attributo proprio di Dio: sacro ed inviolabile per eccellenza. Un uomo lo diventa, quando viene dichiarato (sancìto) tale da una autorità religiosa per essere venerato e proposto come modello di vita. Insomma, una questione che riguarda la Chiesa e le altre organizzazioni religiose, non certo noi laici.
Ma c'è una parola che risuona forte perchè coinvolge tutti gli uomini, di qualsiasi genere, cultura, lingua e credo religioso.
E' il termine sacro”. Che vuol dire inviolabile. Cosa c'è di più sacro della vita stessa di ogni persona che vive su questa terra? Oggi, per stima approssimativa, siamo 7 miliardi e 200 milioni circa di abitanti che vivono sul questo pianeta. Quest'anno sono nati 115 milioni di bambini. Oggi ne sono nati 300.000 circa e sono morte 124.000 persone.
Siamo alla ricerca di un legame solido con le persone che amiamo e cerchiamo di mantenerlo tale nel corso della nostra esistenza. Condividiamo lo spazio e il tempo che ci è dato di vivere ragionando quasi sempre in termini minimali. E' con i nostri vicini di casa e con pochi altri, magari lontani mille miglia ma in contatto quasi contemporaneo che stabiliamo amicizia e solidarietà. Il resto ci è sconosciuto.
Le cifre, nella loro fredda razionalità, ci buttano in faccia una verità sconvolgente: nei due piatti della bilancia ci sono vite sconsacrate da uno sfruttamento disumano, ed altre in egual misura che si abbruttiscono e si autodistruggono nell'opulenza.

Una domanda mi tormenta da molto tempo: cosa rimane della sacralità di Dio in queste persone? Dove è finita una parte della sua inviolabilità, della sua misericordia e benvolenza?

24.284 le persone morte di fame oggi.
896.500.000 sono le persone denutrite nel mondo.
1.582.000.000 sono le persone in sovrappeso nel mondo.

763.400.000 le persone senza accesso ad acqua potabile.
1.498.755 morti per malattie associate all'acqua quest'anno.

6.300.000 bambini morti al di sotto del quinto anno di età quest'anno.

12.090.000.000 sigarette fumate oggi.
4.160.321 morti per fumo quest'anno.
2.081.473 morti per alcool quest'anno.

$333.000.000.000 soldi spesi in droga quest'anno.


Sono graditi commenti, ma va bene anche un rispettoso silenzio.




martedì 22 ottobre 2013


Diario di una visita di “cortesia”



A due passi dal Museo del Giocattolo, sconosciuto alla maggior parte dei milanesi, c'è la “Residenza per anziani Santa Giulia” di via Pitteri. Questa la conoscono in tanti, ed è sempre aperta al pubblico.
Di fronte al suo ingresso un vivace via vai di gente entra in Esselunga per fare la spesa nelle ore pomeridiane di un normale e tiepido venerdì autunnale. Varcata la porta, al banco informazione c'è una ragazza indaffarata al telefono, in una serrata conversazione, che vorrebbe chiudere al più presto. “Come il suo turno di lavoro” -mi viene da pensare- per uscire fuori e riprendere la sua giornata.

Io e mia moglie conosciamo il percorso. L'ascensore plana leggero e silenzioso al secondo piano. Nell'atrio, gli sguardi acquosi dei degenti incrociano le nostre occhiate furtive mentre ci dirigiamo verso la stanza di Adele.
Lei è una anziana cugina di mia moglie. E' grave, sta lentamente morendo e siamo venuti per salutarla. Non è una visita di “cortesia”.
E' adagiata di sbieco sul cuscino, con la testa riversa d'un lato, la bocca spalancata a prendere aria, intanto che il petto si solleva come un mantice rumoroso. E mi sembra che possa cedere da un momento all'altro, tanta è la fatica.

Negli ultimi quindici giorni è ancora più dimagrita. Consumata da una forma perniciosa di leucemia e di demenza senile, ha quasi smesso del tutto di nutririsi. Così si sta ritirando dal mondo. Da stamattina è piombata in un coma torpido e forse non si risveglierà più. 
Saluto suo marito Vanni e mi avvicino alle sbarre del letto. Seguo il ritmo del suo respiro ed ora che si fa più lieve e meno affannoso mi viene spontaneo accarezzare la sua mano destra che è libera dagli impicci della flebo. E' calda e liscia anche se mostra la macchia bluastra di un piccolo ematoma. 
Per qualche attimo sento il mio polso battere col suo. Così lieve, così tenue e sottile come il filo della sua vita che ci lega in questo strano incontro dove le parole sono inutili e banali.
Il viso è deformato, ha perso peso e tono, e si è allungato. La fronte è ampia ed i capelli candidi sono lunghi e mossi come ha sempre avuto da signora. Una mano benevola li ha pettinati all'indietro, trattandoli con cura. E, si vede, il viso di Adele conserva le tracce di quella donna attraente, distinta e gentile che è stata.
Le palpebre sono chiuse. “Peccato -dico a me stesso- non poter rivedere i suoi occhi limpidi venati di tratti azzurri!” Ogni tanto gira leggermente il collo ed avvicina le labbra come se volesse dire qualcosa, mentre la mano di mia moglie inumidisce la sua bocca con movimenti lenti.
Ti viene di parlarle dolcemente a questa vecchietta di 82 anni. Viene voglia di cullarla, tanto è rattrappita e ridotta come una bambina mentre sta nel grande letto d'ospedale.

Ma cosa puoi dire ad un'anima che quasi non ha più un corpo dove abitare?
Vanni, anche lui acciaccato dall'età e dalla malattia, si alza dalla poltroncina per avvicinarsi al letto. Le sue parole sono quelle di un marito sfinito e sconfortato. Il declino è stato rapido, meno di anno prima Adele era al suo braccio, coi suoi occhi sorridenti.
Abbattuto, ci dice:
Dopo la trasfusione di ieri, si è come assopita. Mi hanno detto che è in coma, e non so, se ritornerà presente. Ecco vedi -e intanto tremante prende la sua coscia dentro la mano- non ha più muscoli. Non c'è più niente.”
Forse Adele ci riconosce, ma non percorrendo le intricate vie delle parole, chè queste sono ormai consumate e logore come un vestito dismesso e dimenticato appeso chissà dove. Ci riconosce, punto. Lo so che è un atto di fede, per questo ci credo! Sono sicuro, Adele ci riconosce. E' toccata dal timbro della nostra voce, dal contatto asciutto e dal tepore delle nostre dita che incrociano le sue. Come a trasmettere un messaggio in codice.

Il vecchio marito, che è un tipo burbero dal cuore generoso, la richiama con una voce rotta dallo smarrimento.
Adele... Adele, mi senti? Sono io, sono Vanni...”
E lo ripete più volte, con foga.
Adesso sta chino col viso accostato al suo, accarezzandola.
Guardami. Quante cose belle, quanti viaggi abbiamo fatto insieme... E lo sai che ti voglio bene!”.
Poi c'è pianto e consolazione, anche se momentanea, nel nostro abbraccio.

Sostiamo in un silenzio calmo. Il vuoto che potrebbe pervadermi come un'onda travolgente, non mi allarma. 
I pensieri si arrestano. Sono fermi, rispettosi, nell'autorimessa della mente in attesa che qualcosa avvenga. Che venga svelato il mistero della vita. Come un soffio, possa finalmente andarsene via.
Uscire dalla Residenza per Anziani di via Pitteri in completa libertà a visitare il Museo dei Giocattoli, aperto apposta per lei.

Buon viaggio Adele!




sabato 12 ottobre 2013

ATTRAVERSARE IL MEDITERRANEO


MOHSEN LIHIDHEB, IL POSTINO DEL MARE

Il postino di Zarsis, un paese nel sud della Tunisia, dopo 20 anni e più di lavoro va alla scoperta della memoria del mare e diventa “postino del Mediterraneo”.

Ogni giorno, da più di 11 anni Mohsen si alza all'alba, sale sulla sua vecchia auto e percorre i 40 km necessari per raggiungere il mare. Parcheggia e cammina per 6 km: tre in una direzione e poi altri 3 nell'altra.
Al suo rientro ha raccolto nel doppio sacco che si porta sulle spalle tutto ciò che il mare abbandona sulle rive. Montagne di bottiglie di plastica, pinne, palloni consumati dalla salsedine, ma anche tavole da surf, cordame, lampade di tutti i tipi, caschi, spugne, assi di legno di insegne o sfasciami di vecchie imbarcazioni. Mohsen ne fatto un museo, che ha chiamato: “Museo della memoria del mare”. Questo museo in principio ha occupato il cortile della sua abitazione e le vicinanze, poi si è via via esteso lungo 150 km di spiagge a richiamare il paradosso dell’uomo di oggi. Un'opera d'arte costruita coi rifiuti.



Mohsen è nato, è cresciuto ed ha lavorato come postino a Zarsis. La sua vita l'ha trascorsa sempre in quel villaggio, tra il mare e la natura del deserto fino a 40 anni.
Da quel momento ha deciso di cambiare vita, con un proposito: tornare al mare, smettere di fumare, bere o fare le solite cose. Così torna veramente al mare, ma senza idee o piani per la testa . Poco alla volta, mentre cammina vagabondando sulle spiagge inizia a raccogliere tutto ciò che arriva dal mare portato dalle maree notturne.
E mentre raccogliere gli oggetti ributtati dal mare sulla terraferma, comprende che questo gesto rappresenta per lui una di stretta di mano con l'ignoto, con l'altro che non conosce.
Le cose che recupera le considera un regalo, che misteriosamente Dio gli fa trovare davanti ai suoi passi. Sono proprio queste cose a compiere il miracolo: da quel momento sente che hanno frantumato le barriere artificiali dei confini di stato, di religione, di lingua o cultura. E dal quel momento la sua vita si apre.

Se visitate il suo villaggio vi mostra le sue collezioni di bottiglie. Ci sono quelle enormi, che usano i clandestini quando si imbarcano sui gommoni verso la Sicilia. Non solo bottiglie, Mohsen trova molte cose appartenenti a questi uomini e donne annegate. Ha raccolto tutto ciò che appartiene a loro, ha provato ad espriemere così il massimo rispetto per queste vittime del nuovo ordine mondiale.
Ne ha fatto una installazione speciale, posta al centro del cortile di casa, dedicata a Mamadou. Dentro al muro delle bottiglie di plastica colorate, c'è una montagna di scarpe. Sono le scape dei naufraghi, annegati nel Mare Nostrum. Il Museo di Mohsen è un sacrario. Custodisce con cura, dopo averli raccolti e lavati, centinaia di pantaloni, magliette, giacconi e camicie... che il mare ha provveduto a restituire alle rive africane pietosamente svestendo i corpi senza vita dei migranti.
Mohsen ha ritrovato non solo degli indumenti, ma anche dei cadaveri. La prima volta nell’agosto del 2002. Gabriele Del Grande, un reporter sociale che ha scritto un bel libro sulle rotte di migrazione africane verso l'Europa “Mamadou va a morire” (ed. Infinito) ha raccolto la testimonianza di Mohsen. Eccola:
«Da qualche giorno si diceva in giro del ritrovamento di parecchi cadaveri sulle spiagge di Zarzis. La gente mi chiedeva se avessi trovato la mia parte di naufraghi, scherzando. Ma io non scherzavo affatto. Ogni volta che entravo in acqua sentivo l’angoscia salire allo stomaco. Avanzavo con cautela, ero scalzo, avevo paura di toccare uno dei cadaveri sottacqua. Il mare mi aveva consegnato prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di Sicilia. Poi i messaggi in bottiglia che parlavano della crisi dell’uomo moderno e finalmente le onde mi portavano la prima vittima in carne e ossa della corsa verso l’Occidente. L’avevo visto da lontano. All’inizio sembrava una tartaruga rivolta sul guscio. Quando mi sono accorto che era un essere umano mi sono sentito mancare. Il battito del cuore mi assordava. Era là bocconi, coperto dalle alghe fino al ginocchio e sopra la testa. Taglia media, quel corpo muscoloso in vita era stato consumato dal sole e dalle onde, la pelle beige. Con le lacrime agli occhi ho recitato il Corano e ho pregato Mosé, Cristo e tutti gli dei perché dessero la pace all’anima di Mamadou. Poi ho gridato con tutte le corde della rabbia la mia collera. Non ho voluto fare foto al mio amico, perché il suo corpo, il suo spirito e la sua bellezza appartengono soltanto a dio». Mohsen chiama la polizia, che raccogliere il cadavere per la sepoltura. La sera a casa ordina alla moglie una buona cena per tutta la famiglia. «A casa ne ho parlato solo qualche giorno dopo, ma quella sera volevo festeggiare, perché Mamadou non dormiva più al freddo».

Ma c'è un altro argomento che sta molto a cuore a Mohsen: quello dei messaggi in bottiglia. Ne ha raccolte 54 di bottiglie con messaggi. Ce ne sono di vari tipi. Alcune chiedono aiuto, quindi lanciano un SOS con scritto: “La nostra nave sta affondando, abbiamo problemi, aiutateci!”
Ci sono altre bottiglie in cui si chiede aiuto a Dio, anche per avere una buona pesca. Alcuni mandano messaggi d'amore.

Mohsen raccoglie il messaggio di una ragazza italiana, che dichiara la sua profonda delusione per la vita e il proposito di volersi uccidere. E con grande semplicità, le scrive una lettera per rincuorarla e invitarla a venire da lui ad aiutarlo a ripulire la spiaggia. E il miracolo si compie: ancora oggi mantengono un buon rapporto.

Così Mohsen decide di di non limitarsi a ricevere i messaggi, ma anche ad inviarli. Ad oggi sono più di 80 le bottoglie che ha messo in acqua per chiedere rispetto per la natura e per gli uomini. Ha ricevuto molte risposte ed ha stabilito anche tanti contatti, a volte tramutati in amicizia.

Tutte le “cose” che questo uomo semplice ha trovato, sono un collegamento, una stretta di mano che ognuno di noi può fare con l'altro. Il messagio che la sua scelta di vita ci manda è netto: siamo tutti fratelli perchè vicini l'uno con l'altro. E tutti siamo chiamati a rispondere della vita e della sorte del nostro vicino. Perchè in questo mare, che sta in mezzo alle terre, non si possono alzare muri o barriere ed ignorare quello che accade sulla sponda opposta alla tua.

Il postino di Zarsis ha trasformato l'azione delle correnti marine nella “memoria” del mare e degli uomini. E allora ci invita, con il suo inguaribile ottimismo, a non perdere l'opportunità che la vita offre ad ogni persona: incontrare l'altro.


il Museo di Mohsen

















venerdì 4 ottobre 2013

Le STORIE sono PERSONE

Le parole ritrovate.

Questa poesia l'ho trovata a luglio nel vialetto d'entrata della Biblioteca, mentre camminavo spedito verso la sala di lettura dei quotidiani.
Un biglietto anonimo che mi ha incuriosito. Lei, la poesia, era ripiegata su se stessa in una pagina di quadernone e giaceva a terra nell'indifferenza dei passanti.
Strappata alla bell'e meglio, rivoltata in quattro e sfuggita dalla tasca dei jeans o dallo zainetto di una giovane ragazza nel quotidiano transito della sua giornata.
La grafìa non lascia dubbi. Una mano femminile l'aveva scovata; aveva poi trascritto i versi con cura per averla con sè.

E' una lunga poesia che Sherwood Anderson (Il trionfo dell'uovo) ha scritto nel 1921, in un momento di blocco creativo.
Le storie che ha in mente non riescono ad entrare nella sua immaginazione, che è spenta ed inospitale. Rimangono sulla soglia di casa, al freddo, sedute sui gradini in una attesa senza fine. E sono destinate a morire.

"Le Storie son persone
sedute sui gradini della
porta d'ingresso della mia
immaginazione. 
...
Fa troppo freddo
per loro là fuori. La strada
di fronte alla porta della mia
immaginazione è piena di storie.
Sussurrano e gridano, muoiono
di freddo e di fame." ...
...

L'ho letta e riletta più volte. Le "storie" per poter nascere, crescere e toccarci nell'anima, hanno bisogno di trovare una dimora, una sensibilità, calda ed accogliente dove poter vivere con dignità. E' proprio così.

Poi, mi sono chiesto, e le "persone" che sono presenti in carne ed ossa davanti ai miei occhi ogni giorno, con il loro carico di fatiche, sogni e delusioni, dolori e speranze, come le accolgo?

Il poeta, con grande onestà, dichiara la sua impotenza e getta la spugna:

"Sono incapace - le mie mani
tremano.
Dovrei essere seduto al tavolo come
un sarto.

Le storie dovrebbero essere
vestite.
Stanno gelando sui gradini
della porta della mia immaginazione.

Sono un incapace - le mie
mani tremano. "


E' una poesia che mi ha amareggiato e lasciato inquieto. Forse per questo motivo l'ho lasciata per mesi sulla mia scrivania, aperta, su una pila di libri, senza sapere cosa fare.
Oggi l'ho ripresa in mano, l'ho riletta parola per parola e finalmente ho capito.

Sì, è vero, anch'io tremo e mi sento incapace. Ma questo è il primo passo, indispensabile, per andare oltre, per riconoscere in ogni persona la sua inconfondibile, unica, e preziosa "storia".