martedì 14 gennaio 2014

"MA TUTTO SI RIPETE”




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Nella primavera del 1965 André Aciman e la sua numerosa famiglia vennero espropriati della fabbrica paterna di tessuti, spogliati di ogni avere e costretti ad abbandonare la propria città, Alessandria d'Egitto, dove vivevano da tre generazioni. Con loro fu cacciata la gran parte degli 80.000 ebrei della comunità di Alessandria.
Ecco alcuni brani del capitolo finale del libro “Ultima notte ad Alessandria” (ed. Guanda 2009) dove il giovane André affronta lo strappo della partenza.
André Aciman “ebreo” è costretto a compiere il suo Esodo da una terra che ama e che rimane indelebilmente iscritta nella sua memoria. E, al termine del viaggio, non c'è una Terra Promessa accogliente. Solo una incerta sosta, in un incessante peregrinare, da una città all'altra, generazione dopo generazione.

Quando mio padre riagganciò, guardò tutti noi che eravamo nella sala da pranzo e disse: -E' cominciata-. Non c'era bisogno che ci spiegasse nulla. Era risaputo che quelle telefonate arrivavano a tutte le ore della notte, ed erano telefonate minacciose, oscene, offensive, in cui una voce sconosciuta sosteneva di chiamare a nome del tale ufficio governativo e poneva ogni genere di domande su dove abitavamo, i nostri ospiti e le nostre abitudini, e ci ricordava che non eravamo niente, non avevamo alcun diritto e presto saremmo stati scacciati.
...
Non incontrai mai l'uomo che comprò l'arredamento e nemmeno assistei alla transazione, né vidi alla fine quando i mobili della camera da letto e della sala da pranzo furono allineati sul marciapiede. Abdou fu l'unico che pianse, ci disse Azisa. Un giorno tornai da scuola e trovai la casa vuota. Nel frattempo (mio padre) stava sfogliando una trentina di spessi taccuini verdi e di tanto in tanto strappava fogli che voleva conservare. Gli chiesi cosa stava facendo.
-Sono appunti che ho preso da giovane-. Li avrebbe buttati via? -Non tutti, ma qui dentro ci sono cose che preferirei sparissero-. -All'epoca avevi scritto qualcosa contro il governo?- gli domandai.
-No, la politica non c'entra. Altre cose- rispose, incapace di nascondere un debole sorriso. -Prima o poi capirai-.
Cercai di spiegargli che ero abbastanza grande, ma sapevo cosa mi avrebbe detto: -Questo lo dici tu-. Disse che si ricordava ancora quando, trentanni prima, il giorno in cui se n'erano andati da Costantinopoli, aveva visto la casa dei genitori vuota. Così come suo padre aveva visto quella dei suoi. E lo stesso era capitato anche ai nostri antenati prima di loro. Un giorno sarebbe toccato anche a me, anche se lui sperava che non accadesse -Ma tutto si ripete-. Cercai di protestare, dicendo che odiavo quel genere di fatalismo ed ero immune dalle superstizioni sefardite. -Questo lo pensi tu- mi rispose.
...
La notizia che mio padre aveva perso tutto arrivò un sabato mattina all'alba. Era l'inizio della primavera del 1965. Ce la comunicò Kassem, il caposquadra dei turni di notte alla fabbrica. Suonò il campanello e fu mio padre che andò ad aprigli. Intuì subito il motivo di quella visita antelucana e sembrò tanto sconvolto che il giovane operaio scoppiò in singhiozzi isterici.
-Allora l'hanno presa?- gli chiese mio padre, riferendosi alla fabbrica. -Sì.- -Quando?- -Stanotte. Non mi hanno permesso di telefonarle, così sono venuto di persona.-
Rimasero entrambi in silenzio all'ingresso, poi andarono in cucina dove mio padre cercò di improvvisare una tazza di tè. Si sedettero al tavolo, facendosi coraggio a vicenda, finchè non crollarono entrambi e non cominciarono a singhiozzare l'uno nella braccia dell'altro.
...
Quando finalmente parlai con mio padre quella mattina, mi disse che non era stata una sorpresa. Era andato a letto sapendo cosa l'attendeva l'indomani, ma non l'aveva detto a nessuno, nemmeno a mia madre. Poi mi feci coraggio e gli chiesi cosa sarebbe accaduto adesso. Avevano ancora bisogno di lui in fabbrica, mi rispose. Ma dopo sarebbe successo l'inevitabile. Cioè? Ci avrebbero chiesto di lasciare il paese. Avremmo dovuto abbandonare tutto. …
-Qualche settimana, un mese, forse.-
Fece una pausa, poi aggiunse: -A ogni modo per noi è finita-.
...
Quella sera sgattaiolai nella stanza di zio Nessim. Mi sedetti sul suo letto e guardando alla finestra le tremolanti luci della città mi tornò in mente quando parlava di Londra e di Parigi e diceva che un vero gentiluomo -quale si considerava- beveva un bicchiere di scotch tutte le sere. -Un giorno o l'altro questa roba mi ucciderà- profetizzava, -ma adoro sedermi qui a guardare la città e pensare a un po' di cose prima di cena.-
E adesso anch'io avrei fatto lo stesso, avrei pensato a un po' di cose, come diceva lui, alla nostra partenza e alle persone che non avrei mai più rivisto e a questa città, totalmente inseparabile da ciò che ero in quel preciso istante, al fatto che sarebbe scivolata via nel tempo e diventata più remota del mondo dei sogni.
Anche quello era un po' come morire. Essere morto significava che gli altri potevano entrare in camera tua, mettersi a sedere e pensare a te. Significava che altre persone sarebbero entrate in camera tua senza sapere che un tempo era stata tua.
A poco a poco ogni tua traccia sarebbe stata cancellata. Perfino il tuo odore sarebbe svanito.
Alla fine si sarebbero perfino dimenticati che eri morto.
Aprii la finestra per fare entrare il rumore della città.”


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