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Nella primavera del 1965
André Aciman e la sua numerosa famiglia vennero espropriati
della fabbrica paterna di tessuti, spogliati di ogni avere e
costretti ad abbandonare la propria città, Alessandria d'Egitto,
dove vivevano da tre generazioni. Con loro fu cacciata la gran
parte degli 80.000 ebrei della comunità di Alessandria.
Ecco alcuni brani del
capitolo finale del libro “Ultima notte ad Alessandria”
(ed. Guanda 2009) dove il giovane André affronta lo strappo della
partenza.
André Aciman “ebreo”
è costretto a compiere il suo Esodo da una terra che ama e che
rimane indelebilmente iscritta nella sua memoria. E, al termine del
viaggio, non c'è una Terra Promessa accogliente. Solo una incerta
sosta, in un incessante peregrinare, da una città all'altra,
generazione dopo generazione.
“Quando mio padre
riagganciò, guardò tutti noi che eravamo nella sala da pranzo e
disse: -E' cominciata-.
Non c'era bisogno che ci spiegasse nulla. Era risaputo che quelle
telefonate arrivavano a tutte le ore della notte, ed erano telefonate
minacciose, oscene, offensive, in cui una voce sconosciuta sosteneva
di chiamare a nome del tale ufficio governativo e poneva ogni genere
di domande su dove abitavamo, i nostri ospiti e le nostre abitudini,
e ci ricordava che non eravamo niente, non avevamo alcun diritto e
presto saremmo stati scacciati.
...
“Non incontrai mai
l'uomo che comprò l'arredamento e nemmeno assistei alla transazione,
né vidi alla fine quando i mobili della camera da letto e della sala
da pranzo furono allineati sul marciapiede. Abdou fu l'unico che
pianse, ci disse Azisa. Un giorno tornai da scuola e trovai la casa
vuota. Nel frattempo (mio padre) stava sfogliando una trentina di
spessi taccuini verdi e di tanto in tanto strappava fogli che voleva
conservare. Gli chiesi cosa stava facendo.
-Sono
appunti che ho preso da giovane-. Li avrebbe buttati via?
-Non tutti, ma qui dentro ci
sono cose che preferirei sparissero-. -All'epoca
avevi scritto qualcosa contro il governo?- gli domandai.
-No,
la politica non c'entra. Altre cose- rispose, incapace di
nascondere un debole sorriso. -Prima
o poi capirai-.
Cercai di spiegargli
che ero abbastanza grande, ma sapevo cosa mi avrebbe detto: -Questo
lo dici tu-. Disse che si ricordava ancora quando,
trentanni prima, il giorno in cui se n'erano andati da
Costantinopoli, aveva visto la casa dei genitori vuota. Così come
suo padre aveva visto quella dei suoi. E lo stesso era capitato anche
ai nostri antenati prima di loro. Un giorno sarebbe toccato anche a
me, anche se lui sperava che non accadesse -Ma
tutto si ripete-. Cercai di protestare, dicendo che odiavo
quel genere di fatalismo ed ero immune dalle superstizioni sefardite.
-Questo lo pensi tu-
mi rispose.
...
“La notizia che mio
padre aveva perso tutto arrivò un sabato mattina all'alba. Era
l'inizio della primavera del 1965. Ce la comunicò Kassem, il
caposquadra dei turni di notte alla fabbrica. Suonò il campanello e
fu mio padre che andò ad aprigli. Intuì subito il motivo di quella
visita antelucana e sembrò tanto sconvolto che il giovane operaio
scoppiò in singhiozzi isterici.
-Allora
l'hanno presa?- gli chiese mio padre, riferendosi alla
fabbrica. -Sì.- -Quando?-
-Stanotte. Non mi hanno permesso di telefonarle, così sono venuto di
persona.-
Rimasero entrambi in
silenzio all'ingresso, poi andarono in cucina dove mio padre cercò
di improvvisare una tazza di tè. Si sedettero al tavolo, facendosi
coraggio a vicenda, finchè non crollarono entrambi e non
cominciarono a singhiozzare l'uno nella braccia dell'altro.
...
“Quando finalmente
parlai con mio padre quella mattina, mi disse che non era stata una
sorpresa. Era andato a letto sapendo cosa l'attendeva l'indomani, ma
non l'aveva detto a nessuno, nemmeno a mia madre. Poi mi feci
coraggio e gli chiesi cosa sarebbe accaduto adesso. Avevano ancora
bisogno di lui in fabbrica, mi rispose. Ma dopo sarebbe successo
l'inevitabile. Cioè? Ci avrebbero chiesto di lasciare il paese.
Avremmo dovuto abbandonare tutto. …
-Qualche
settimana, un mese, forse.-
Fece una pausa, poi
aggiunse: -A ogni modo per noi è
finita-.
...
“Quella sera
sgattaiolai nella stanza di zio Nessim. Mi sedetti sul suo letto e
guardando alla finestra le tremolanti luci della città mi tornò in
mente quando parlava di Londra e di Parigi e diceva che un vero
gentiluomo -quale si considerava- beveva un bicchiere di scotch tutte
le sere. -Un giorno o l'altro
questa roba mi ucciderà- profetizzava, -ma
adoro sedermi qui a guardare la città e pensare a un po' di cose
prima di cena.-
E adesso anch'io avrei
fatto lo stesso, avrei pensato a un po' di cose, come diceva lui,
alla nostra partenza e alle persone che non avrei mai più rivisto e
a questa città, totalmente inseparabile da ciò che ero in quel
preciso istante, al fatto che sarebbe scivolata via nel tempo e
diventata più remota del mondo dei sogni.
Anche quello era un
po' come morire. Essere morto significava che gli altri potevano
entrare in camera tua, mettersi a sedere e pensare a te. Significava
che altre persone sarebbero entrate in camera tua senza sapere che un
tempo era stata tua.
A poco a poco ogni tua
traccia sarebbe stata cancellata. Perfino il tuo odore sarebbe
svanito.
Alla fine si sarebbero
perfino dimenticati che eri morto.
Aprii la finestra
per fare entrare il rumore della città.”
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